sabato 1 settembre 2012

Ventisei

Gli Ebrei non pronunciano mai il Nome di Dio: nella Bibbia lo sostituiscono in vari modi, con Adonay, o anche semplicemente con Ha Shem, che significa «il Nome». Lo fanno per rispetto, per timore, in obbedienza al comandamento dato da Dio a Mosé. Ma questa scelta nasconde una veritá profonda e bellissima: Dio é presente non solo quando lo si nomina, ma ancor più quando non lo si fa. Lui c’é esattamente proprio quando sembra non esserci. E quindi é presente sempre, e tutto il creato é sempre sotto i suoi occhi, nelle sue mani. Un esempio di questo é il capitolo quarto della Genesi : Caino e Abele. Dio non é in questa storia solo quando fa comparsa, quando parla: il capitolo é composto di 26 versetti, e 26 é esattamente il valore numerico del Nome divino. Dio é presente dal primo all’ultimo versetto, anche al versetto ottavo, quando Caino alza il braccio per uccidere suo fratello.
Proprio questo é ció che la nostra comunitá vive qui a Gerualemme: é un capitolo della Storia Sacra complesso, umano e nuovo, come ogni altro capitolo. Dio compare qua e lá, ma é presente sempre, nel nostro fare pulizie, lavori piú o meno pesanti, nel fare ordine e nell’organizzare di nuovo tutto, nello studio delle lingue, nei nostri Capitoli settimanali, il cui primo obiettivo é quello di imparare a conoscersi e a capire la lingua dell’altra. E’ presente nei nostri tentativi di cercare una liturgia per una comunitá internazionale, che tenga conto della storia del monastero, della Liturgia della Custodia di Terra Santa e di quella del Patriarcato Latino di Gerusalemme, cioé della Chiesa che vive qui.
E’ presente nella fatica delle sorelle che sono qui da anni, e che vedono la loro vita trasformarsi ed aprirsi a nuovi orizzonti; ed é presente in chi fra noi é arrivata da poco, e  si trova dentro un’insicurezza tutta nuova, e deve trovare la porta attraverso cui, da sola,  entrare nel nuovo di questa vita: il passaggio é duro, perché si tratta di lasciare un mondo, uno stato mentale, una modalitá relazionale, una lingua, un modo di vivere che ti sembravano gli unici, per accoglierne altri, che neanche capisci, che non avevi mai visto. Esattamente come la terra promessa dovette apparire a Israele che passa il Giordano: é la tua terra, ma tu ancora non la conosci.
E’ presente nel deserto di relazioni che Gerusalemme porta in dote, e nell’amicizia preziosissima che i frati della Custodia ci regalano.
E’ presente nel dolore di questa terra, nella sua violenza e nella sua esilissima speranza.
E’ duro ma… “si ricordino, le sorelle, che é per amore del Signore che hanno abbandonato la propria volontá”, dice la Madre Santa Chiara. E’ duro, quindi, finché cerchi di farlo con le tue forze, finché cerchi di capire e finché tenti di chiudere il nuovo in schemi vecchi. Ma é possibile ed é la Terra promessa, se ci stai per amore: allora é proprio una nuova nascita, una nuova bereshit.
A proposito di bereshit: é  una parola che nell’Antico Testamento si trova solo in due Libri, Genesi e Geremia. Genesi é l’inizio di tutto, carico di promessa e di fiducia, senza un passato che ti pesi sul cuore e nella mente. In Geremia, al contrario, bereshit lo si trova al cuore del libro, al cuore di una storia di distruzione e di ricostruzione, di partenza per l’esilio e di promessa di un ritorno che sembra alle porte ancor prima di partire…, una bereshit mescolata nel cuore del dramma della vita, e che salva nella speranza.
Noi camminiamo cosí, in ascolto, un po’ a tentativi, ma con questa speranza sicura, che ad ogni svolta, ad ogni passaggio, se ci guardiamo indietro, vediamo che anche il nostro capitolo é composto di ventisei versetti, come Genesi 4. …
A noi di sapervi leggere il Nome di Dio.

articolo tratto dalla rivista "Terra santa"

Dio è povero

Capita qualche volta che gruppi di Israeliani vengano al monastero per incontrarci: gente molto rispettosa, che si affaccia timidamente su questo luogo diverso che siamo noi, di cui intuisce una misteriosa bellezza, senza arrivare ad avere chissà quale risposta sulla nostra vita. Apprezzano la bellezza del giardino, la gioia che vedono sui nostri volti, la pace che emana dal luogo, così prossimo alla città, ma anche così silenzioso e sereno.
Anche la settimana scorsa ne è venuto uno: un gruppo di persone adulte, che stavano facendo un corso per diventare guide dei pellegrini, e volevano conoscere un po’ più da vicino la Chiesa viva di oggi a Gerusalemme. Siamo andate in due sorelle della comunità, per accoglierli.
Hanno fatto tantissime domande: “Perché siete vestite così? Ma voi siete uguali ai Francescani? Come è la vostra giornata? Non uscite mai? Perché fate questo? Perché siete qui?”. Tutti attentissimi alle risposte, con la penna veloce che prendeva appunti, da destra a sinistra...
Io rispondevo in Francese e uno del gruppo traduceva in Ebraico. Tutto tranquillo fino a quando qualcuno ci ha chiesto di parlare di Francesco, della sua conversione. Allora ho iniziato a dire che Francesco era figlio di una famiglia di mercanti, nato nel XII secolo, tutto preso dai suoi sogni di diventare un cavaliere, quando ha incontrato un Dio che si è fatto povero …. A questo punto il mio traduttore si è fermato. Ho colto un tentennamento, un leggero imbarazzo, un sospiro, e poi, onestamente, con delicatezza,  mi ha solo detto: “Mi scusi, sorella, ma questo non posso tradurlo”. Senza nessuna polemica, senza nessun astio, solo con l’impossibilità quasi fisica di pronunciare queste parole: Dio si è fatto povero. Proprio non ce la faceva, non a crederci, ma neanche solo a pronunciarle. Era qualcosa di più forte di lui.
Io ho avuto un momento di smarrimento: in un attimo mi sono resa conto di quanto sia inconcepibile e scandalosa questa scelta di Dio di spogliarsi della propria gloria, per diventare uno di noi. Di farsi bambino che nasce in un paesetto minuscolo, dove non c’è neanche posto per Lui. Di accettare di fare i conti quotidianamente con la vita, con il limite, con la fatica; di morire, e di morire in croce. “Scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani”, dice S. Paolo.
In un attimo ho capito quanto solo Dio possa aver fatto una cosa così, quanto questo superi le possibilità più oneste della nostra mente, anche le più audaci, o aperte, o generose: Dio può amare i poveri, può stare dalla loro parte, si può impegnare a difenderli e a liberarli, e questo sarebbe già tanto. Può ascoltare le nostre preghiere e insegnarci un modo per farle. E passi anche questa. Ma che Dio sia un povero, no, non è possibile. Che sia povero, come noi …: inaccettabile!
In un attimo ho capito quanto la fede sia un dono -un grande dono- e che solo questo dono può farti accogliere un Dio così.
In un attimo ho capito lo stupore di Francesco e di Chiara per questo mistero della povertà e dell’umiltà di Dio, e mi sono ben resa conto di come questo può cambiare la vita. Perché se riesci a stupirti, anche solo una volta, per questo mistero, poi esiste solo questo, e questo diviene l’evento fondante, il centro, il cuore, la vita, la gioia, la possibilità di amare. Cioè, praticamente tutto. Una povertà che ci dona tutto.
Ma contemporaneamente, mi sono anche resa conto di quanto sia impegnativo un Dio così, che chiede di accogliere la vita come un dono gratuito, di stare nella povertà con amore, di non meritare nulla, di accogliere tutto…
Ripresami dal mio smarrimento, ho ringraziato questa guida per la sua onestà: e ho cercato di dire che sì, è proprio uno scandalo, e che questa è l’assoluta novità della fede cristiana, novità alla quale anche noi, e non solo chi non ci crede, dobbiamo continuamente convertirci.
Sono rimasta tutto il giorno commossa da questo evento, che mi faceva guardare tutto e tutti in modo diverso.
Vado all’adorazione, e me lo trovo lì davanti questo Dio, poverissimo nell’Eucaristia esposta sull’altare.
E poi, a Vespro, mi trovo questa antifona al Magnificat: “Exultez dans le Christ: il vous enrichit par sa povreté”. Cioè: gioite in Cristo, Egli vi arricchisce per la sua povertà.
E ho avuto il sospetto che la Liturgia si fosse messa d’accordo con la mia amica guida israeliana…

articolo tratto dalla rivista "Terra santa"

Lingue

Il reparto piú fornito della biblioteca del nostro monastero é quello delle lingue: due armadi pieni di vocabolari, grammatiche, corsi, cassette e CD. Abbiamo di tutto, dalle cose piú semplici, (come vocabolari di Italiano, Inglese, Francese…), a quelle giá piú impegantive («L’Arabo senza pena»,  «L’Ebraico in sei mesi », oppure vocabolari Portoghese-Tedesco…), a quelle decisamente piú strane, come «L’Aramaico per tutti». Ce n’é per tutti i gusti, e stanno lí a dire due cose importanti: la vocazione internazionale della nostra comunitá, che da anni vede l’inserimento di sorelle provenienti da diverse parti del mondo; e lo sforzo, che da sempre le ha caretterizzate, di imparare la lingua dei popoli di quí, per comunicare con la gente del posto.
A Gerusalemme le lingue sono una delle prime sfide: la lingua che sai non basta, e scopri che qui tutti (dal ragazzino di sedici anni, all’imbianchino, all’impiegato) conoscono almeno tre lingue piú di te. Una sfida quotidiana: quando qualcuno suona alla porta, la prima cosa su cui ci si deve accordare é in quale lingua si vuole comunicare. E non é raro il caso che, dopo aver parlato per dieci minuti in Inglese con un visitatore, vieni a scoprire che é piú Italiano di te, e magari si ha pure qualche conoscenza in comune. Ma a parte questi casi fortunati, a nessuno é risparmiata la fatica di sentirsi straniero, e questo sentirsi straniero é un buon punto di partenza per imparare a desiderare di aprire il proprio mondo al mondo dell’altro. Nella Bibbia, soprattutto nei salmi, le due cose vanno spesso insieme: lo straniero é colui che non ha nulla, e quindi puó desiderare. E questa povertá e questa attesa lo rendono capace di incontrare il mondo che lo circonda, di accoglierlo con umiltá.
Fra noi, straniere in questa terra e desiderose di conoscerla, nasce spesso la domanda: quale lingua imparare per prima? Come? Qual é la piú facile, e quale la piú difficile? Riusciró ad impararla?
La prima risposta che la vita di qui regala é che la lingua piú difficile é quella della persona che ho davanti a me in questo momento. Puó parlare l’Ebraico o l’Arabo; ma potrebbe parlare anche l’Italiano, come me, potrei conoscere tutte le parole che mi dice, avere la stessa grammatica e la stessa sintassi, ma rimane comunque uno straniero, rimane un mistero. Per capirlo bisogna comunque fare lo sforzo di lasciare il proprio mondo e di accettare che ne esista un altro, che la tua stessa lingua sia veicolo di un’altra esperienza, di altre idee, di altre emozioni. Bisogna essere ancora piú poveri, allora, ancora piú accoglienti, ancora piú silenziosi.
La lingua dell’altro é la lingua piú difficile, dunque, ma é anche la piú bella: ogni lingua apre un mondo, e ogni mondo ha la sua ricchezza unica, che nessun altro ti potrebbe consegnare, e che tu, da solo, non potresti mai avere.
Per imparare questa lingua, non ci sono libri, né cassette, né CD, neanche nei due armadi della nostra biblioteca…: inutile andare a rovistare. Serve, piuttosto, un profondo silenzio del cuore, abituato a cercare la Vita ovunque essa possa nascondersi, e capace di stupirsi perché la Vita é dappertutto, e chiede solo di essere ascoltata.
Non ci sono dunque libri, ma c’é un Maestro, Lui che é Parola e che per primo, per ascoltarci e per capirci, ha fatto il Suo esodo e ci ha raggiunti qui dove siamo. Il prezzo é stato alto, ma ci é riuscito: ha imparato la nostra lingua, ha ascoltato il nostro desiderio, ci ha parlato a lungo, ci ha dato il Suo Spirito, per ricordare le Sue parole e per dirne di nostre, nella veritá. E per insegnarci che questa veritá abita anche nelle parole dell’altro, qualunque lingua parli. Basta solo saperlo ascoltare.

articolo tratto dalla rivista "Terra santa"

Gerusalemme

A distanza di qualche mese dal mio arrivo a Gerusalemme, iniziavo ad accorgermi che il senso di estraneitá che la Cittá Santa mi suscitava non accennava a diminuire. Anzi! Piú passavano i giorni e più una sorta di disagio cresceva, un sentirmi quasi schiacciata dall’immensitá, dalla complessitá, dall’alteritá di questo luogo, dove c’é di tutto e dove tutto convive con il proprio contrario. Dove è cosí difficile tracciare confini, o leggere gli eventi secondo qualche prestabilito schema mentale.
Ed é cosí che, approfittando della possibilitá che ci siamo date per questi primi tempi di andare a vedere, a toccare e a conoscere la Terra che abitiamo, una bella mattina del mese scorso sono partita sola, con acqua, cartina e Bibbia, per cercare di scoprire il mistero di Gerusalemme. Per capire il senso del mio vivere qui.
Sono partita senza un programma preciso, in ascolto e in attesa di quanto sarebbe potuto accadere, con l’unico proposito di dedicare la mattina alla Cittá vecchia, e il pomeriggio alla nuova.
Ho camminato, camminato, camminato. Ho ascoltato, guardato, sentito, respirato. La mattina per i suck, in un caos di voci, colori e odori, dove tu passi tra le migliaia di pellegrini che quel giorno visitano i luoghi santi della cittá vecchia; e la fatica più grande è di convincere i negozianti che non vuoi comprare nulla. E il pomeriggio per la cittá nuova, dove il mio saio di clarissa, tra le mille foggie di abiti della gente di qui, non suscita nemmeno curiositá, dove tutto è scritto in due lingue che ancor più mi fanno sentire un’estranea, dove c’è tutto, ma senti che non è per te. Iniziavo certo a riconoscere le case e le vie, a capire dove va Jaffa street e dove si trova il mercato Ben Yehuda, quale autobus passa per via King George e dove stanno l’Istituto Biblico o il quartiere ultraortodosso. Ma non diminuiva il senso di smarrimento. Ho continuato a camminare, ma non è successo proprio niente: nessun incontro, nessun luogo e nessun modo in cui sentirmi accolta, a casa.
E’ solo tornando in monastero, verso sera, che ho capito che il mio pellegrinaggio non era stato vano, ma, se volevo, poteva darmi una chiave preziosa: Gerusalemme non mi appartiene, e non ci posso stare dicendo: “Questa è casa mia!”. Posso conoscerla e amarla, ma non possederla. Perché Gerusalemme é di tutti e non è di nessuno in particolare, e diventa tua solo se accetti di viverci come pellegrino e forestiero. E questo scarto, questo sentirla sempre un po’ lontana, è forse proprio il segreto che cercavo, è ció che ti permette di non sederti, ma di continuare a cercare, a camminare, a sostenere la fatica di andare oltre, di abitarci come una povera.
E mi sono detta che l’unica vera cittadinanza sicura, che mi è data quaggiù, è quella della Gerusalemme …di lassù, dove giá fin d’ora non siamo più pellegrini o forestieri, ma concittadini degli angeli e familiari di Dio.
E ancora, sognavo camminando, che bello sarebbe se tutti qui riuscissero a fare il salto di dire: “Gerusalemme non è mia…”. Se tutti potessero sentirsi un po’ pellegrini in casa propria: ci sarebbe posto per tutti!
E infine, rientrata in monastero, con il passare dei giorni, continuando a camminare, mi sono chiesta: ma questo segreto, quello di Gerusalemme, non è forse anche il segreto della vita? Nella vita non ci si puó stare forse solo cosí, sapendo che tutto è nostro, ma solo se noi stessi apparteniamo ad un Altro, se accettiamo di condividere ció che siamo e ció che abbiamo?

articolo tratto dalla rivista "Terra santa"

sabato 30 giugno 2012

Clausura

Ogni tanto me lo chiedo: ma che senso ha vivere in clausura a Gerusalemme? Qui, dove già non è facile incontrare la gente, dove le necessità sono tante, dove di motivi per uscire se ne potrebbero trovare a migliaia. Perché starsene chiuse fra quattro mura? Non sarebbe meglio andare a cercare l'altro, a costruire dialoghi e ponti...? O a toccare con mano le diversità, o a conoscere meglio i luoghi della salvezza?
È una domanda che si fanno gli altri, quelli che ci vedono. Ma è una domanda che ci facciamo anche noi, che in clausura, a Gerusalemme, ci viviamo. Per trovare il senso e il modo di uno stare qui, per viverlo con passione, con fedeltà.
La risposta alla quale si arriva non è una risposta facile, perché la sfida è alta, ed è quella di sempre, ovvero di scoprire come il Vangelo riesce a rendere piena un'esperienza umana, dentro quei paradossi -evangelici appunto- che riescono a portarti alla vita facendoti passare attraverso la morte.
E la risposta che mi sto dando è che la clausura è il modo più povero per perdere la vita: di perderla proprio tutta, senza salvarne nemmeno un pezzettino, senza poter tenere per te almeno una vaga ipotesi che servi a qualcosa, che fai del bene a qualcuno...
In monastero, di solito, non succede niente di straordinario: le grandi vie del dialogo interreligioso non passano di qui, e per quanto ci si sforzi di costruire relazioni, ti rendi conto che non è qualcosa che dipende da te, o che avviene come e quando vuoi tu. Accadrà, se Dio vuole.
Spendi ore e ore a studiare le lingue, ma non sai in anticipo se ci sarà qualcuno con cui parlare.
Le grandi sfide della politica spesso ci trovano incapaci perfino di fare una lettura o una sintesi, tanto la situazione è complessa.
In Italia -e nel resto del mondo!- i monasteri sono spesso luoghi di incontro, di amicizia, di condivisione della preghiera, di aiuto spirituale. Qui tutto questo è raro, e comunque, anche quando accade, capisci che il cuore del nostro essere qui non è ancora questo.
In clausura a Gerusalemme ci si sta solo per consegnarsi alla “inutilità” della croce, ovvero a quel mistero per cui Dio salva chi non è nulla, che il Suo Regno è donato ai poveri. Per vivere quella parola del Vangelo per cui chi perde la vita, la salva, e chi vuole salvarla la perde. Per abbandonarsi all'esperienza che prima di ogni altra cosa la vita è solo grazia.
La tentazione di sottrarsi a questa inutilità a volte è grande, e non sarebbe difficile trovare delle sante motivazioni per farlo. In più, da questo luogo di osservazione, è bello vedere la Chiesa che si china sul dolore dell'uomo: qui il dolore è grande, e la Chiesa che vi si china è particolarmente bella, e a volte vorresti esserci anche tu in questo suo chinarsi.
È tutto bello, è tutto veramente importante: aiutare i Palestinesi, fornire casa e lavoro ai Cristiani perché possano rimanere, incontrare i beduini, creare amicizie con gli Ebrei e con i Musulmani...Quante cose sarebbe bello fare.
Ma per quanto sia bello, non è nostro. Nostro, invece, è il deserto che tutto attende da Dio, che ha nel Padre quella fiducia cieca per cui sai che la Vita viene solo da Lui. È il fare così fortemente l'esperienza del limite da sceglierlo come dimora, come quella ferita che chiede tutto a Lui.
E perché questa fiducia non siano solo parole, ma sia la roccia che tutto regge, deve passare per delle vite così, totalmente inutili, completamente perse.
E anche assolutamente certe che Lui dona, esattamente a misura della nostra povertà: cioè più noi siamo poveri, persi, niente, più Lui dona tutto. Al centuplo.
articolo tratto dalla rovista "Terra Santa"

Debordant

C’é una parola che ricorre spesso nella Liturgia francesce, e che é difficilmente traducibile in Italiano. La parola é «debordant », ritorna sempre per indicare l’opera di Dio, e sta lí a suggerire tutto ció che é esagerato,  che é troppo, che é un po’ una follia.
Giá tutta la creazione porta in sé il segno di questo Suo «debordare», di quella gratuitá che crea e che dona senza calcoli, senza paura, senza chiedere nulla: dai fiori alla bellezza, al tempo, alla libertá dell’uomo, tutto é segno di un Dio «debordant». Se poi si legge anche solo velocemente il Vangelo di Giovanni, uno non ha piú dubbi: dall’inizio, quando il Verbo era presso Dio e venne ad abitare in mezzo a noi, e poi a Cana, al pozzo di Giacobbe…il debordare di Dio percorre tutto il Vangelo, fino ad esplodere sulla Croce, dove la sorgente si apre completamente, e si dona tutta. «Debordant» é dunque una parola chiave per affacciarsi al mistero di Dio.
Non solo: lo é anche per entrare nel mistero di Gerusalemme, perché quando la Vita di Dio ha «debordato», e i cieli non bastavano piú per contenere tutto l’Amore Suo, é successo che é arrivato proprio quí.  Ha abitato qui. Non si sa perché, e non bisogna necessariamente capirlo: il debordare segue le misteriose leggi dell’amore, quelle che scelgono il piú piccolo, quelle che percorrono le vie strette, quelle che amano i paradossi, quelle che non fuggono la sofferenza.
Da quel giorno in cui l’eccessivo di Dio ha toccato e infiammato questa Terra, essa porta il segno di questo eccesso, per cui davvero tutto sembra essere troppo: emozioni, colori, passioni, idee, attaccamenti, lotte, lingue, razze, culture, tutto é «debordant» a Gerusalemme. Ci sono tutti i popoli, tutte le religioni, tutte le confessioni cristiane, tutti gli ordini religiosi. Un eccesso di vita.
Ma, forse proprio per questo, a Gerusalemme c’é anche un eccesso di fatica: lo si sente non appena ci si avvicina alla cittá santa, lo si respira nell’aria, lo si vede nel terreno arido e roccioso, e sui volti della gente. Giá per Dio era stato cosí: quando il suo eccesso ha incontrato il rifiuto, si é fatto umile consegna di Sé, fino alla morte. L’uomo non gli ha fatto sconti. Una sofferenza eccessiva per un amore eccessivo, il cui frutto é la vita in abbandanza.
Forse é proprio questo che attira cosí tanta gente a Gerusalemme; é per questo che Gerusalemme regala, anche a chi viene solo per qualche giorno, in pellegrinaggio, un fascino unico: per questo intreccio misterioso di vita e di sofferenza, per questo eccessivo che parla della vita, che é la vita. Che é Dio.
Infine «debordant » é anche una parola chiave per entrare nel mistero della nostra vita di clarisse a Gerusalemme: quando qualcuno ci chiede perché siamo qui, perché abbiamo lasciato i nostri paesi per vivere in una comunitá internazionale, in un paese straniero, non c’é altra ragione se non questo «debordant». Ancora una volta, basta leggere il Vangelo: chi, in qualsiasi modo, entra in contatto con la salvezza del Signore, é come travolto dal suo scorrere impetuoso, ne é come contagiato. Da Zaccheo a Maria di Betania ai discepoli che hanno incontrato il Risorto…
Anche noi siamo qui semplicemente perché quando la vita deborda non la si puó contenere. E anche noi facciamo esperienza di tutte le sfumature di questa parola, di tutti i suoi significati, e di quel misterioso intreccio fra una grande fatica e una grande grazia. Anche noi, come ogni pellegrino che giunge qui, portiamo nel cuore quella nostalgia, che il nostro eccesso assomigli sempre piú a quello che muove il cuore di Dio.
articolo tratto dalla rivista "Terra santa"

martedì 12 giugno 2012

Terra e cielo


Tornando dall'ospedale, dove una sorella era ricoverata, sono arrivata a piedi alla Porta di Damasco, e poi ho preso l'autobus 21, che passa giusto davanti alla porta del monastero.
Gli autobus arabi sono di solito molto silenziosi, ma il mio vicino di posto aveva voglia di parlare. Mi ha chiesto se appartenevo a quella specie di cristiani che vivono in quelle case strane addossate sulla roccia, nel deserto, come quello che si trova andando giù, verso Gerico. Non ha aspettato neppure la risposta, e poi mi ha detto che aveva saputo da poco che questo genere di persone non si sposa. E siccome la cosa lo lasciava veramente molto perplesso, voleva sapere se era vero. La domanda mi ha colto un po' alla sprovvista, e così l'amico ne ha approfittato per continuare a dirmi che non riusciva a capire il senso di questa scelta: Allah non ci ha forse affidato la terra? Non è nostro dovere abitarla, e fare figli, che la posseggano e abitino dopo di noi? Aver figli non è segno di ricchezza, di potenza? Ma perché poi rinunciare ad avere tutto ciò che si potrebbe avere?
Allora ho provato a dire qualcosa, ovvero che il Signore non ci ha affidato solo la terra, ma anche il cielo. E ci ha affidato, soprattutto, il compito magnifico e difficile di tenerli uniti, perché non ci sia terra senza cielo, né cielo senza terra. E che quindi, siccome Lui è Amore, questo modo di tenere unito cielo e terra non può essere altro che una vita che ama, che ama Lui e che ama tutti, soprattutto gli ultimi, i poveri, che si fa solidale. Esattamente il contrario di una questione di forza e di potenza.
E una vita poi, la nostra, che tenga desto fra gli uomini questo desiderio del cielo, quest'attesa di quel compimento in cui noi vedremo il Volto di Dio, questa certezza profonda che il desiderio di Lui è già in qualche modo anticipo di una pienezza, è già comunione con Lui. “Vivere per aspettare qualcuno?”, mi ha domandato, sempre più perplesso.
Non penso proprio di averlo convinto con le mie risposte, ma sono contenta che la domanda, il dubbio, gli siano rimasti: forse il senso del celibato è proprio quello di essere una domanda, una ferita aperta...
La domanda è rimasta dentro anche a me. E mi sono resa conto che ciò che colpisce la gente fra cui viviamo non è tanto la preghiera: qui tutti pregano! Non è neppure la vita fraterna, visto che Israele è nato nei kibbutz e che gli arabi hanno un senso della famiglia molto vicino alla nostra idea di fraternità. Non è neanche la povertà, perché non ci vedono vivere, e non sanno che in realtà nessuno di noi possiede nulla, e che le nostre giornate passano nel lavoro, nella semplicità, senza nulla più del necessario.
Ciò che colpisce, invece, è la scelta di una vita celibe, come mistero incomprensibile che rimanda ad un modo di abitare la terra veramente altro, un modo di affacciarsi sulla storia senza pretese, fosse anche quella più legittima di contribuire a continuarla.
Una vita che non solo prega Dio, ma sposa il modo di Dio di stare nella storia; una vita che non crede che la terra è tutto, e che proprio lì dove sente la ferita di una mancanza, porta i segni della Sua pienezza, e Lo attende.
Ciò che colpisce, poi, in questa terra, è che si possa essere celibi, e anche felici, qui dove la gioia sembra essere veramente un lusso, e sembra legata unicamente al possedere qualcosa qui, in terra; a possedere questa terra.
Qualche giorno dopo, sempre tornando dall'ospedale, avevo proprio voglia di rivedere il mio amico, e di continuare il discorso. Quindi mi guardo in giro, passano diversi autobus, che ugualmente potrebbero portarmi al monastero, ma io cerco il 21. Ci salgo, e mi guardo intorno: il mio amico non c'è, e mi spiace.
Ma poi mi dico: pazienza, posso sempre attenderlo...
articolo tratto dalla rivista "Terra santa"