sabato 30 giugno 2012

Clausura

Ogni tanto me lo chiedo: ma che senso ha vivere in clausura a Gerusalemme? Qui, dove già non è facile incontrare la gente, dove le necessità sono tante, dove di motivi per uscire se ne potrebbero trovare a migliaia. Perché starsene chiuse fra quattro mura? Non sarebbe meglio andare a cercare l'altro, a costruire dialoghi e ponti...? O a toccare con mano le diversità, o a conoscere meglio i luoghi della salvezza?
È una domanda che si fanno gli altri, quelli che ci vedono. Ma è una domanda che ci facciamo anche noi, che in clausura, a Gerusalemme, ci viviamo. Per trovare il senso e il modo di uno stare qui, per viverlo con passione, con fedeltà.
La risposta alla quale si arriva non è una risposta facile, perché la sfida è alta, ed è quella di sempre, ovvero di scoprire come il Vangelo riesce a rendere piena un'esperienza umana, dentro quei paradossi -evangelici appunto- che riescono a portarti alla vita facendoti passare attraverso la morte.
E la risposta che mi sto dando è che la clausura è il modo più povero per perdere la vita: di perderla proprio tutta, senza salvarne nemmeno un pezzettino, senza poter tenere per te almeno una vaga ipotesi che servi a qualcosa, che fai del bene a qualcuno...
In monastero, di solito, non succede niente di straordinario: le grandi vie del dialogo interreligioso non passano di qui, e per quanto ci si sforzi di costruire relazioni, ti rendi conto che non è qualcosa che dipende da te, o che avviene come e quando vuoi tu. Accadrà, se Dio vuole.
Spendi ore e ore a studiare le lingue, ma non sai in anticipo se ci sarà qualcuno con cui parlare.
Le grandi sfide della politica spesso ci trovano incapaci perfino di fare una lettura o una sintesi, tanto la situazione è complessa.
In Italia -e nel resto del mondo!- i monasteri sono spesso luoghi di incontro, di amicizia, di condivisione della preghiera, di aiuto spirituale. Qui tutto questo è raro, e comunque, anche quando accade, capisci che il cuore del nostro essere qui non è ancora questo.
In clausura a Gerusalemme ci si sta solo per consegnarsi alla “inutilità” della croce, ovvero a quel mistero per cui Dio salva chi non è nulla, che il Suo Regno è donato ai poveri. Per vivere quella parola del Vangelo per cui chi perde la vita, la salva, e chi vuole salvarla la perde. Per abbandonarsi all'esperienza che prima di ogni altra cosa la vita è solo grazia.
La tentazione di sottrarsi a questa inutilità a volte è grande, e non sarebbe difficile trovare delle sante motivazioni per farlo. In più, da questo luogo di osservazione, è bello vedere la Chiesa che si china sul dolore dell'uomo: qui il dolore è grande, e la Chiesa che vi si china è particolarmente bella, e a volte vorresti esserci anche tu in questo suo chinarsi.
È tutto bello, è tutto veramente importante: aiutare i Palestinesi, fornire casa e lavoro ai Cristiani perché possano rimanere, incontrare i beduini, creare amicizie con gli Ebrei e con i Musulmani...Quante cose sarebbe bello fare.
Ma per quanto sia bello, non è nostro. Nostro, invece, è il deserto che tutto attende da Dio, che ha nel Padre quella fiducia cieca per cui sai che la Vita viene solo da Lui. È il fare così fortemente l'esperienza del limite da sceglierlo come dimora, come quella ferita che chiede tutto a Lui.
E perché questa fiducia non siano solo parole, ma sia la roccia che tutto regge, deve passare per delle vite così, totalmente inutili, completamente perse.
E anche assolutamente certe che Lui dona, esattamente a misura della nostra povertà: cioè più noi siamo poveri, persi, niente, più Lui dona tutto. Al centuplo.
articolo tratto dalla rovista "Terra Santa"

Debordant

C’é una parola che ricorre spesso nella Liturgia francesce, e che é difficilmente traducibile in Italiano. La parola é «debordant », ritorna sempre per indicare l’opera di Dio, e sta lí a suggerire tutto ció che é esagerato,  che é troppo, che é un po’ una follia.
Giá tutta la creazione porta in sé il segno di questo Suo «debordare», di quella gratuitá che crea e che dona senza calcoli, senza paura, senza chiedere nulla: dai fiori alla bellezza, al tempo, alla libertá dell’uomo, tutto é segno di un Dio «debordant». Se poi si legge anche solo velocemente il Vangelo di Giovanni, uno non ha piú dubbi: dall’inizio, quando il Verbo era presso Dio e venne ad abitare in mezzo a noi, e poi a Cana, al pozzo di Giacobbe…il debordare di Dio percorre tutto il Vangelo, fino ad esplodere sulla Croce, dove la sorgente si apre completamente, e si dona tutta. «Debordant» é dunque una parola chiave per affacciarsi al mistero di Dio.
Non solo: lo é anche per entrare nel mistero di Gerusalemme, perché quando la Vita di Dio ha «debordato», e i cieli non bastavano piú per contenere tutto l’Amore Suo, é successo che é arrivato proprio quí.  Ha abitato qui. Non si sa perché, e non bisogna necessariamente capirlo: il debordare segue le misteriose leggi dell’amore, quelle che scelgono il piú piccolo, quelle che percorrono le vie strette, quelle che amano i paradossi, quelle che non fuggono la sofferenza.
Da quel giorno in cui l’eccessivo di Dio ha toccato e infiammato questa Terra, essa porta il segno di questo eccesso, per cui davvero tutto sembra essere troppo: emozioni, colori, passioni, idee, attaccamenti, lotte, lingue, razze, culture, tutto é «debordant» a Gerusalemme. Ci sono tutti i popoli, tutte le religioni, tutte le confessioni cristiane, tutti gli ordini religiosi. Un eccesso di vita.
Ma, forse proprio per questo, a Gerusalemme c’é anche un eccesso di fatica: lo si sente non appena ci si avvicina alla cittá santa, lo si respira nell’aria, lo si vede nel terreno arido e roccioso, e sui volti della gente. Giá per Dio era stato cosí: quando il suo eccesso ha incontrato il rifiuto, si é fatto umile consegna di Sé, fino alla morte. L’uomo non gli ha fatto sconti. Una sofferenza eccessiva per un amore eccessivo, il cui frutto é la vita in abbandanza.
Forse é proprio questo che attira cosí tanta gente a Gerusalemme; é per questo che Gerusalemme regala, anche a chi viene solo per qualche giorno, in pellegrinaggio, un fascino unico: per questo intreccio misterioso di vita e di sofferenza, per questo eccessivo che parla della vita, che é la vita. Che é Dio.
Infine «debordant » é anche una parola chiave per entrare nel mistero della nostra vita di clarisse a Gerusalemme: quando qualcuno ci chiede perché siamo qui, perché abbiamo lasciato i nostri paesi per vivere in una comunitá internazionale, in un paese straniero, non c’é altra ragione se non questo «debordant». Ancora una volta, basta leggere il Vangelo: chi, in qualsiasi modo, entra in contatto con la salvezza del Signore, é come travolto dal suo scorrere impetuoso, ne é come contagiato. Da Zaccheo a Maria di Betania ai discepoli che hanno incontrato il Risorto…
Anche noi siamo qui semplicemente perché quando la vita deborda non la si puó contenere. E anche noi facciamo esperienza di tutte le sfumature di questa parola, di tutti i suoi significati, e di quel misterioso intreccio fra una grande fatica e una grande grazia. Anche noi, come ogni pellegrino che giunge qui, portiamo nel cuore quella nostalgia, che il nostro eccesso assomigli sempre piú a quello che muove il cuore di Dio.
articolo tratto dalla rivista "Terra santa"

martedì 12 giugno 2012

Terra e cielo


Tornando dall'ospedale, dove una sorella era ricoverata, sono arrivata a piedi alla Porta di Damasco, e poi ho preso l'autobus 21, che passa giusto davanti alla porta del monastero.
Gli autobus arabi sono di solito molto silenziosi, ma il mio vicino di posto aveva voglia di parlare. Mi ha chiesto se appartenevo a quella specie di cristiani che vivono in quelle case strane addossate sulla roccia, nel deserto, come quello che si trova andando giù, verso Gerico. Non ha aspettato neppure la risposta, e poi mi ha detto che aveva saputo da poco che questo genere di persone non si sposa. E siccome la cosa lo lasciava veramente molto perplesso, voleva sapere se era vero. La domanda mi ha colto un po' alla sprovvista, e così l'amico ne ha approfittato per continuare a dirmi che non riusciva a capire il senso di questa scelta: Allah non ci ha forse affidato la terra? Non è nostro dovere abitarla, e fare figli, che la posseggano e abitino dopo di noi? Aver figli non è segno di ricchezza, di potenza? Ma perché poi rinunciare ad avere tutto ciò che si potrebbe avere?
Allora ho provato a dire qualcosa, ovvero che il Signore non ci ha affidato solo la terra, ma anche il cielo. E ci ha affidato, soprattutto, il compito magnifico e difficile di tenerli uniti, perché non ci sia terra senza cielo, né cielo senza terra. E che quindi, siccome Lui è Amore, questo modo di tenere unito cielo e terra non può essere altro che una vita che ama, che ama Lui e che ama tutti, soprattutto gli ultimi, i poveri, che si fa solidale. Esattamente il contrario di una questione di forza e di potenza.
E una vita poi, la nostra, che tenga desto fra gli uomini questo desiderio del cielo, quest'attesa di quel compimento in cui noi vedremo il Volto di Dio, questa certezza profonda che il desiderio di Lui è già in qualche modo anticipo di una pienezza, è già comunione con Lui. “Vivere per aspettare qualcuno?”, mi ha domandato, sempre più perplesso.
Non penso proprio di averlo convinto con le mie risposte, ma sono contenta che la domanda, il dubbio, gli siano rimasti: forse il senso del celibato è proprio quello di essere una domanda, una ferita aperta...
La domanda è rimasta dentro anche a me. E mi sono resa conto che ciò che colpisce la gente fra cui viviamo non è tanto la preghiera: qui tutti pregano! Non è neppure la vita fraterna, visto che Israele è nato nei kibbutz e che gli arabi hanno un senso della famiglia molto vicino alla nostra idea di fraternità. Non è neanche la povertà, perché non ci vedono vivere, e non sanno che in realtà nessuno di noi possiede nulla, e che le nostre giornate passano nel lavoro, nella semplicità, senza nulla più del necessario.
Ciò che colpisce, invece, è la scelta di una vita celibe, come mistero incomprensibile che rimanda ad un modo di abitare la terra veramente altro, un modo di affacciarsi sulla storia senza pretese, fosse anche quella più legittima di contribuire a continuarla.
Una vita che non solo prega Dio, ma sposa il modo di Dio di stare nella storia; una vita che non crede che la terra è tutto, e che proprio lì dove sente la ferita di una mancanza, porta i segni della Sua pienezza, e Lo attende.
Ciò che colpisce, poi, in questa terra, è che si possa essere celibi, e anche felici, qui dove la gioia sembra essere veramente un lusso, e sembra legata unicamente al possedere qualcosa qui, in terra; a possedere questa terra.
Qualche giorno dopo, sempre tornando dall'ospedale, avevo proprio voglia di rivedere il mio amico, e di continuare il discorso. Quindi mi guardo in giro, passano diversi autobus, che ugualmente potrebbero portarmi al monastero, ma io cerco il 21. Ci salgo, e mi guardo intorno: il mio amico non c'è, e mi spiace.
Ma poi mi dico: pazienza, posso sempre attenderlo...
articolo tratto dalla rivista "Terra santa"