Ogni tanto me lo chiedo: ma che senso ha vivere in clausura a Gerusalemme? Qui, dove già non è facile incontrare la gente, dove le necessità sono tante, dove di motivi per uscire se ne potrebbero trovare a migliaia. Perché starsene chiuse fra quattro mura? Non sarebbe meglio andare a cercare l'altro, a costruire dialoghi e ponti...? O a toccare con mano le diversità, o a conoscere meglio i luoghi della salvezza?
È una domanda che si fanno gli altri, quelli che ci vedono. Ma è una domanda che ci facciamo anche noi, che in clausura, a Gerusalemme, ci viviamo. Per trovare il senso e il modo di uno stare qui, per viverlo con passione, con fedeltà.
La risposta alla quale si arriva non è una risposta facile, perché la sfida è alta, ed è quella di sempre, ovvero di scoprire come il Vangelo riesce a rendere piena un'esperienza umana, dentro quei paradossi -evangelici appunto- che riescono a portarti alla vita facendoti passare attraverso la morte.
E la risposta che mi sto dando è che la clausura è il modo più povero per perdere la vita: di perderla proprio tutta, senza salvarne nemmeno un pezzettino, senza poter tenere per te almeno una vaga ipotesi che servi a qualcosa, che fai del bene a qualcuno...
In monastero, di solito, non succede niente di straordinario: le grandi vie del dialogo interreligioso non passano di qui, e per quanto ci si sforzi di costruire relazioni, ti rendi conto che non è qualcosa che dipende da te, o che avviene come e quando vuoi tu. Accadrà, se Dio vuole.
Spendi ore e ore a studiare le lingue, ma non sai in anticipo se ci sarà qualcuno con cui parlare.
Le grandi sfide della politica spesso ci trovano incapaci perfino di fare una lettura o una sintesi, tanto la situazione è complessa.
In Italia -e nel resto del mondo!- i monasteri sono spesso luoghi di incontro, di amicizia, di condivisione della preghiera, di aiuto spirituale. Qui tutto questo è raro, e comunque, anche quando accade, capisci che il cuore del nostro essere qui non è ancora questo.
In clausura a Gerusalemme ci si sta solo per consegnarsi alla “inutilità” della croce, ovvero a quel mistero per cui Dio salva chi non è nulla, che il Suo Regno è donato ai poveri. Per vivere quella parola del Vangelo per cui chi perde la vita, la salva, e chi vuole salvarla la perde. Per abbandonarsi all'esperienza che prima di ogni altra cosa la vita è solo grazia.
La tentazione di sottrarsi a questa inutilità a volte è grande, e non sarebbe difficile trovare delle sante motivazioni per farlo. In più, da questo luogo di osservazione, è bello vedere la Chiesa che si china sul dolore dell'uomo: qui il dolore è grande, e la Chiesa che vi si china è particolarmente bella, e a volte vorresti esserci anche tu in questo suo chinarsi.
È tutto bello, è tutto veramente importante: aiutare i Palestinesi, fornire casa e lavoro ai Cristiani perché possano rimanere, incontrare i beduini, creare amicizie con gli Ebrei e con i Musulmani...Quante cose sarebbe bello fare.
Ma per quanto sia bello, non è nostro. Nostro, invece, è il deserto che tutto attende da Dio, che ha nel Padre quella fiducia cieca per cui sai che la Vita viene solo da Lui. È il fare così fortemente l'esperienza del limite da sceglierlo come dimora, come quella ferita che chiede tutto a Lui.
E perché questa fiducia non siano solo parole, ma sia la roccia che tutto regge, deve passare per delle vite così, totalmente inutili, completamente perse.
E anche assolutamente certe che Lui dona, esattamente a misura della nostra povertà: cioè più noi siamo poveri, persi, niente, più Lui dona tutto. Al centuplo.
articolo tratto dalla rovista "Terra Santa"